Cecilia Faustini era un’infermiera volontaria, cui era stata conferita una medaglia di bronzo al valore per il coraggioso comportamento tenuto durante un attacco nemico alla struttura in cui operava: “mentre tredici granate nemiche cadevano nei pressi dell’ospedale, con sprezzo del pericolo e serenità d’animo aiutava al trasporto dei degenti nella vicina trincea finché l’Ospedale fu sgombrato”.
Era il 16 luglio del 1916 e l’ospedale in questione era il n.ro 209 (a volte citato anche come n.ro 22), situato a San Giovanni Manzano, oggi San Giovanni al Natisone (UD), importante centro di smistamento delle truppe alle pendici del Monte Sabotino, dove dal maggio 1915 all’ottobre 1917 operarono sette infermiere volontarie della Croce Rossa, in condizioni di disagio e pericolo che è facile immaginare. Lo si intuisce persino dalla prosa aulica e ridondante della motivazione.
In quei giorni drammatici il Comando Italiano preparava la sesta battaglia dell’Isonzo, che avrebbe portato il 6 agosto 1916 alla conquista del Monte Sabotino, in uno scenario di orrore da cinquantamila morti, che è descritto in modo sintetico ma chiarissimo dalle parole del soldato Domenico Caronti di Blevio (CO), che teneva una sorta di diario in una piccola agenda e che al 17 luglio annotava “È una vita infame. Ho bevuto un po’ d’acqua, puzzava di cadavere; in questi monti ne furono sotterrati a centinaia. Il pane, in verità, è migliorato, più abbondante, ma mi sembra insufficiente date le fatiche. Manca l’acqua”. Passò poco più di un mese e il Caronti venne ferito ad una gamba da una granata austriaca. Ricoverato all’Ospedale di Conegliano “A sera vengo portato in sala d’operazione. L’alto ufficiale ha dovuto assentarsi, per cui il capitano F. Vista l’urgenza dell’operazione, senza farmi iniezioni anestetizzanti – cattivo! – mi fece da solo un’abbondante raschiatura dell’osso. Il dolore che provai non è da dirsi; lo stesso prof. Fabris ebbe a dirmi che sopportai benissimo una delle operazioni più dolorose. A sera la febbre arriva a 39 gradi”.
La difficile situazione delle infermiere al fronte
Questo macabro quadro sulla situazione degli ospedali militari (e Conegliano era nelle retrovie!) per non parlare degli avamposti assistenziali, in cui operava la Faustini, è confermata in un passaggio del volume “La distanza dai fatti” del goriziano Enrico Rocca, che pure era un interventista. Ferito sul Sabotino, cui era giunto dopo una marcia estenuante dal “deposito rifornimento uomini” di Manzano, era stato mandato in infermeria, ma “dopo un quarto d’ora una granata fa saltare in aria la crollante bicocca”. Di conseguenza dovette adattarsi a un viaggio allucinante su di un’ambulanza a cavalli, le cui scosse continue sul terreno squassato dalle artiglierie lo facevano terribilmente soffrire. Ai dolori fisici si aggiungeva l’ostilità di alcuni dei compagni di viaggio: un soldato con la mano fasciata che malediceva gli interventisti e anche un medico che gli chiedeva con tono sprezzante perché non fosse morto lassù come tutti quelli che “han voluto fare la guerra”.
In questo clima drammatico di malattia e morte, per di più avvelenato anche da tensioni di natura politica, è facile immaginare che la vita delle giovani infermiere volontarie non fosse affatto facile: di certo la scortesia era forse il male minore che dovevano affrontare ogni giorno.
Come non bastasse l’orrore da cui erano circondate, obbligate dalla carenza di sussidi e medicinali a limitarsi, in molti casi, a “rendere più umana la fine” a malati e feriti, queste donne – per lo più del ceto borghese – dovevano anche scontare la diffidenza della società verso la loro scelta di sostenere un’attività prettamente maschile in un mondo di soli uomini. I medici erano diffidenti, gli infermieri spocchiosi e le autorità militari per nulla convinte di questa “invasione di campo”. Atteggiamento di chiusura che proseguì anche al termine della guerra, quando, al di là delle lodi di facciata, molti esponenti della politica e della cultura auspicarono un ritorno delle infermiere volontarie al loro ruolo di mogli e madri, cercando di impedire in ogni modo che l’attività svolta durante il conflitto fosse in qualche modo assorbibile ai fini di una professionalità nel campo infermieristico con l’ipocrita motivazione che ciò che era stato fatto in caso di emergenza non era replicabile in situazioni normali. Di certo un’iniezione sul fronte si esegue in modo radicalmente diverso da come la si fa in tempo di pace.
Motivazioni, medaglie ed encomi
Intanto l’illusione della “guerra giusta”, della “guerra breve”, che era stata sventolata dagli interventisti e che forse aveva illuso anche molte delle volontarie, stava mostrando gravi crepe. L’entusiasmo stava scemando, tanto che il 10 febbraio 1917 i vertici della CRI decisero di “motivare” chi, stanco e provato, lavorava ormai da un anno negli ospedali come volontario con una medaglia consegnata durante una cerimonia in Campidoglio, cui presero parte, oltre alla Regina Elena, fervente sostenitrice della CRI, il Presidente di quest’ultima e il Presidente del Consiglio. Tra le premiate Cecilia Faustini che, come recita il volume menzionato, ricevette “la medaglia militare d’argento al merito con palma della CRI” con la seguente motivazione “per avere prestato un anno di lodevole servizio di guerra negli ospedali”. Un anno nelle condizioni che abbiamo visto doveva essere davvero lungo.
Nel settembre del 1917 Faustini doveva però aver lasciato Manzano poiché la troviamo in un elenco di infermiere volontarie dislocata presso l’ospedale, o per meglio dire l’ospedaletto, n. 72 (non è al momento possibile ricostruire la sua collocazione) insieme a due altre infermiere di Como sorelle o parenti – Lina e Giulia Beragiola – e Vicenza Garella di Cuneo.
L’apprezzamento per l’operato della Faustini era piuttosto alto, visto che il 15 novembre del 1918 il Comandante del 6° Corpo d’armata, che probabilmente era l’unità presso la quale era appostata, le riservò un encomio “per le intelligenti premurose cure prodigate con zelo indefesso, con alto spirito di carità senza limite di sacrificio personale, notte e giorno, ai feriti e ai malati”. Stupisce in queste parole, per alcuni aspetti retoriche, l’utilizzo del termine “intelligente”: non è usuale trovarlo riferito al lavoro delle infermiere, di cui si preferiva sottolineare il più “femminile” aspetto caritatevole.

Maria Giovanna Trenti – MIria Burani ©