Lo schema interpretativo tradizionale degli eventi bellici – almeno sino alla Seconda guerra mondiale, che ha cambiato radicalmente l’impatto sulla popolazione – abitualmente collocava gli uomini “eroici” sui campi di battaglia e le donne “protette” nelle retrovie. Visione ovviamente scorretta e parziale poiché, anche tralasciando le grandi invasioni che nei secoli hanno devastato interi territori, bastava una razzia locale, un assedio tra microscopici castelli per portare le donne in prima linea, destinate a subire una sorte analoga, se non peggiore a quella degli uomini della stessa famiglia, della stessa fattoria, della stessa città.

Gli storici poi hanno calato un velo di silenzio su tutte quelle donne che “seguivano” gli eserciti, quelli che un vecchio professore piuttosto celebre definiva sbrigativamente le “vivandiere”, accompagnando il termine con un sorriso a metà tra lo sprezzante e l’allusivo.

Solo da poco tempo sono iniziati studi approfonditi circa la presenza femminile sul “fronte”, che è stata una costante nel corso della storia, anche in guerre tipicamente “di confine” o di “trincea” come la Prima guerra mondiale, che apparentemente non coinvolgevano la popolazione civile, se non in particolari circostanze e in ambiti geografici ridotti.

In effetti in quel periodo non esistevano corpi femminili combattenti, ma molte donne hanno ugualmente rischiato la vita ogni giorno insieme ai soldati. Tra queste il personale dei cosiddetti ospedali da campo, il cui destino non era molto diverso da quello dei soldati: molte sono rimaste ferite, alcune sono state imprigionate e numerose sono addirittura morte “in servizio”.

Le diecimila infermiere volontarie

Nel corso del conflitto le infermiere volontarie furono circa diecimila, provenienti dalla Croce Rossa e dalla Scuola Samaritana, altra istituzione di assistenza a matrice cattolica: di queste trentadue morirono, tre furono internate in un campo di prigionia austriaco perché non vollero abbandonare i feriti affidati alle loro cure durante la tremenda ritirata seguita a Caporetto, e molte altre riportarono ferite e malattie. La più celebre è senza dubbio Margherita Kaiser Parodi Orlando, partita per il fronte a diciotto anni e morta di spagnola a Trieste ad appena ventuno, dopo aver assistito e curato centinaia di feriti. In memoria di tanta abnegazione le è stato riservato l’onore di essere sepolta, unica donna, nel cimitero di Redipuglia.

In qualche modo, anche se spesso obtorto collo, i vertici militari e i politici dovettero prendere atto del grande contributo dato da queste volontarie e 174 furono decorate al valor militare per le azioni eroiche compiute: una con medaglia d’oro, quattro con medaglie di argento e di bronzo, ventotto con medaglie d’argento e centoquaranta con medaglie di bronzo.

Il mio primo “incontro” con una di queste donne coraggiose è avvenuto in modo del tutto casuale, sfogliando un vecchio opuscolo malconcio, privo di molte pagine, che un collega, a conoscenza della mia passione per le vecchie storie di cittadini qualunque, mi aveva prestato, dopo un fortunoso ritrovamento in solaio.

Cecilia Faustini

Si trattava della raccolta di tutti i residenti nelle provincie di Modena e Piacenza – strano e non motivato abbinamento, di cui non mi so dare spiegazione – che avevano ricevuto medaglie al valore, stampata a cura delle due sezioni dell’Istituto del Nastro Azzurro in una data imprecisata, che, da una sommaria analisi del contenuto, dovrebbe collocarsi nella seconda metà degli anni ’30 del secolo scorso.

Tra i baffoni all’insù dei più anziani, le approssimative divise aereonautiche dei pionieri del volo, gli esuberanti piumaggi dei bersaglieri, le pose convinte e un filo retoriche dei militari di carriera, i volti timidi dei soldati di leva, spesso in abiti civili poiché quella era forse l’unica fotografia disponibile, preoccupati per essere stati strappati al loro quotidiano da questa terribile esperienza, improvvisamente è apparso un volto femminile: Cecilia Faustini della Sezione di Piacenza.

La fotografia ci consegna una donna piuttosto giovane, graziosa, dal viso triste, infagottata in una divisa da crocerossina in cui il copricapo con lungo velo quasi si congiunge, creando un unico pezzo, all’altissimo colletto chiuso da due bottoni. Abbigliamento di certo castissimo, ma sulla cui praticità nel caos di un ospedale militare molto ci sarebbe da dire.

Cecilia era un’infermiera volontaria cui era stata conferita una medaglia di bronzo al valore per il coraggioso comportamento tenuto durante un attacco nemico alla struttura in cui operava: “mentre tredici granate nemiche cadevano nei pressi dell’ospedale, con sprezzo del pericolo e serenità d’animo aiutava al trasporto dei degenti nella vicina trincea finché l’Ospedale fu sgombrato”. (CONTINUA)

Foto in copertina: Una trincea italiana sull’Adamello con, in primo piano, una bombarda da 240 mm (Immagine di Pubblico Dominio via Wikipedia)

Maria Giovanna Trenti – MIria Burani ©