L’identificazione della dottoressa Fini citata dal Resto del Carlino come pediatra attiva a Bologna nel 1913 è stata – complice un cognome assai diffuso –necessariamente condotta per approssimazione: dovrebbe comunque trattarsi di Maria Ines (o Ines Maria) Fini, nata in Piemonte e precisamente ad Alessandria, un po’ prima del 1890.
Nonostante sia stata una pediatra nota e stimata e autrice di numerose pubblicazioni, della sua vita sappiamo pochissimo e la ricostruzione anche dei soli dati salienti, si è rivelata complessa, ma tanto più stimolante proprio perché paradigmatica delle molte donne “anonime” che hanno cambiato il mondo con gesti quotidiani e sistematici, demolendo piano piano i luoghi comuni che le volevano escluse da tanti mestieri e professioni.
Gli studi superiori
Il fatto stesso che la Fini abbia conseguito la laurea in Medicina e Chirurgia implica che avesse ottenuto, indicativamente nei primi anni del Novecento – non sappiamo se come privatista o con normale frequenza – la maturità classica.
Dopo l’unità d’Italia la struttura dei corsi scolastici era stata infatti regolarizzata, limitando, salvo rare eccezioni, l’accesso alle facoltà universitarie ai soli studenti provenienti dal Liceo Classico, dove la presenza femminile era del tutto minoritaria. Questa scuola era, infatti, ritenuta da moltissimi intellettuali, tra cui anche sedicenti progressisti, strettamente “maschile”, in quanto chiamata a formare le future classi dirigenti, da cui “era ovvio” fossero escluse le donne.

La struttura fu inaugurata nel 1913, in occasione del citato VIII Congresso di Pediatria, ma l’avvio concreto fu ritardato dalle solite lungaggini burocratiche e finì con l’essere concessa alla Sanità Militare durante la prima guerra mondiale. Divenne finalmente Clinica Pediatrica solamente dieci anni dopo, nel 1922.
Alle ragazze l’iscrizione fu consentita solo dal 1875, grazie ad un cavillo interpretativo del cosiddetto Regolamento Bonghi: ne derivava una fortissima discrezionalità da parte dei singoli istituti e, infatti, molti Presidi tentarono di impedire loro l’ingresso accampando i più incredibili pretesti. Le famiglie non erano da meno, preferendo per le figlie un tipo di formazione specifico con taglio “femminile”, che ne facesse delle mogli e madri o al massimo delle maestre.
Basti ricordare che a Bologna, città tradizionalmente “accogliente” verso la cultura al femminile, presso il Liceo Galvani, che da subito aveva accettato le studentesse grazie a un Preside senza paraocchi, tra il 1900 e il 1910 su 280 diplomati appena 28 erano ragazze.
L’università
La Fini successivamente frequentò la facoltà di Medicina e Chirurgia a Bologna, dove si laureò il 1° luglio del 1911 con una tesi intitolata Ricerche sul ferro nelle urine, che costituì la base di lavoro per un articolo, Contributo alla conoscenza della eliminazione del ferro per le urine, pubblicato l’anno successivo sul Bullettino delle Scienze Mediche. Organo della Società e Scuola Medica Chirurgica di Bologna.
Negli anni seguenti continuò ad operare, in un ruolo che al momento non è dato definire, presso l’Ateneo bolognese, presumibilmente presso la Clinica Pediatrica, diretta in quel periodo da Giovanni Berti, che aveva sostituito nel 1911 il celebre Carlo Comba– Qui restò per certo sino al 1915 come testimonia ancora Il Resto del Carlino del 9 giugno che, a pagina 4, tra le sottoscrizioni a favore delle famiglie povere dei soldati in guerra, riporta “Quinta nota di offerte di professori universitari […] De Angelis, Sarti, Salvi, Fini Maria Ines, Totiri, Ippoliti, Gurgin, Puntoni V. junior, Lucchetti, Sernaggiotto, Magri Lire 5 ciascuno”. Si tratta della cifra più bassa tra quelle donate dai docenti dell’Ateneo e comunque modesta in assoluto – una dozzina di uova costava circa 75 centesimi – il che induce a pensare che si trattasse di assistenti, con contenute capacità economiche.
La prima guerra mondiale
Nel 1918 la Fini pubblicò, sempre sul Bulletino, un importante contributo sulle cutireazioni tubercoliniche. Si trattava di approfondimenti preziosi, in un momento storico in cui la tubercolosi, endemica in tutta Europa e trasversale alle classi sociali, ma con un’incidenza drammatica nei ceti poveri, poteva essere combattuta solo attraverso un’identificazione precoce e un miglioramento dell’ambiente e degli stili di vita, non essendo ancora disponibili farmaci efficaci.
Gli storici della medicina evidenziano come il periodo bellico vide intensificarsi moltissimo la produzione scientifica a firma femminile, un fenomeno, riscontrabile in molti altri campi lavorativi, direttamente collegato alla rilevante uscita delle donne dal perimetro domestico con conseguente possibilità di accesso a lavori e professioni “maschili”. In quegli anni si registrò, ad esempio, la nomina a primario – cosa inaudita sino a quel momento – di alcune professioniste con curricula di assoluto valore, ma in generale, sull’onda del bisogno, il pubblico superò quell’aura di diffidenza, che ancora circondava la figura della “dottoressa”.
Terminata la guerra, la società tentò di imporre alle donne un immediato rientro nei ranghi: furono loro tolti – scandalosamente – gli incarichi più prestigiosi e si tentò di confinarle di nuovo entro gli ambiti ritenuti di loro “competenza”, ma i medici donna lottarono strenuamente, a prezzo di enormi sacrifici, per difendere le posizioni guadagnate.

La professione e gli studi
Nel 1924 Ines Maria Fini pubblicò la più importante e articolata delle sue opere, il volume Studio delle sindromi ipertiroidee nell’età infantile, recensito e citato da alcune delle più prestigiose riviste, anche estere, di pediatria ed endocrinologia. Il lavoro era il frutto di un’esperienza più che decennale nella cura dei bambini, condotta sia presso la Clinica pediatrica, sia come medico sul territorio. La Guida Sanitaria Italiana di quell’anno ci informa, infatti, che disponeva di un ambulatorio situato a Bologna in via Castiglione 6.
Oltretutto, da un recente studio pare che il termine ipertiroideo sia stato usato per la prima volta in Italia proprio in questo volume, confermando la novità e la qualità dell’approccio adottato dalla studiosa.
Analogamente spetta alla Fini la segnalazione del primo caso nazionale di acrocefalosindattilia, una terribile malattia rara, descritta per la prima volta dal pediatra francese Eugène Charles Apert nel 1906.
Aderì quasi subito all’Associazione Italiana Dottoresse in Medicina e Chirurgia (oggi Donne Medico) fondata nel 1921 da Clelia Lollini e Mary Carcupino Ferrari e nel 1928 fu relatrice al Convegno della stessa tenutosi a Bologna, dove presentò uno studio di spessore intitolata Protezione all’infanzia e alla gioventù in Italia fino al 1923: Relazione al V Congresso Internazionale delle dottoresse in medicina e chirurgia. Il lavoro approfondiva il delicato tema della prevenzione da attuare nelle età pediatrica e adolescenziale, in un’epoca segnata non solo da un’elevata mortalità infantile, ma da moltissime gravi malattie che incidevano con particolare virulenza su queste fasce di età, tra cui la temutissima tubercolosi.

La libera docenza
Al momento non sappiamo se le fu mai assegnata una cattedra universitaria, benché in numerosi documenti venga fregiata del titolo di professoressa e nel 1930, Mélina Lipinska nel suo Les femmes et le progrès des sciences médicales, nel capitolo Europe Meridionale e Amerique Latine, segnali che “attualmente ci sono donne medico italiane che hanno ottenuto, per i loro lavori scientifici, delle posizioni universitarie. La Signorina Maria Ines Fini è “privat-docent” all’Università di Bologna”. Questa posizione di libero docente in pediatria viene confermata anche dall’Annuario del Ministero dell’educazione nazionale per il 1935.
La libera docenza in Italia era all’epoca disciplinata dal R.D. 1592/1933, secondo le cui previsioni laureati e/o studiosi, che avessero superato uno specifico esame di abilitazione per titoli, conseguivano l’abilitazione all’insegnamento per una determinata disciplina, pur in mancanza di una cattedra.
Il conseguimento di questo titolo testimonia che il lavoro e le pubblicazioni della Fini, all’epoca sui quarant’anni, erano di assoluto valore, ma che di certo essere una donna non la favoriva nella carriera accademica.
Il soffitto di cristallo
Analogamente essere una donna medico la collocava sotto il famoso “soffitto di cristallo”, che permane bello solido ancora oggi: per quanto fosse una pediatra nota e stimata il suo reddito 1929, pari a £ 12.000, si posizionava parecchio al di sotto della media, circa £ 20.000, dei 305 medici attivi nella città di Bologna (ma parecchi nominativi avevano contestazioni con il fisco per il doppio o il triplo di quanto dichiarato!!!) e certo ben lontana dai redditi percepiti dai luminari del tempo. Il Direttore del Rizzoli, Vittorio Putti, dichiarava infatti £ 180.000, il chirurgo Nigrisoli dell’omonima clinica £ 150.000 e il primario di chirurgia del Maggiore, Gamberini, £ 115.000.

Le ultime notizie
Dopo la citata segnalazione del 1935 non sono al momento reperibili altre notizie, tranne una nota di fonte giornalistica.
In un articolo del 2016, dedicato all’evoluzione delle professioni femminili, la Gazzetta di Mantova riferisce che in provincia nel 1956 vi erano sole 12 donne medico tra cui una Maria Ines Fini, che dovrebbe essere, a meno di un improbabile caso di omonimia, la nostra pediatra, anche se ignoriamo i motivi di questo trasferimento nella città lombarda.
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