Giuseppe Campori, noto erudito ottocentesco modenese, nella sua opera Gli artisti italiani e stranieri negli Stati estensi, riporta la biografia di Francesco Capriani detto il Volterra, architetto di buon rilievo nell’ambiente controriformistico romano, che lavorò a lungo a Guastalla per Cesare Gonzaga. Sin qui nulla di strano, se non che, per meglio definirne la figura, conclude “Il Volterra fu marito della celebre Diana Brizziana intagliatrice in rame conosciuta sotto il nome di Diana Mantovana”.
Ancora oggi succede davvero di rado che per fornire informazioni su di un uomo, si sottolinei che è il marito di…, figuriamoci poi nel 1800, tanto più che il Campori non era certo un protofemminista.

Chi era dunque questa donna eccezionale che seppe raggiungere una notorietà superiore a quella del marito, tanto da essere lei la figura di riferimento in famiglia?
Gli inizi
Diana nacque a Mantova probabilmente nel 1547 in una famiglia di artisti: il padre Giovan Battista aveva lavorato con Giulio Romano a Palazzo The e il fratello Adamo, maggiore di una quindicina di anni, stava già dimostrando notevoli qualità di incisore.
Seguendo un percorso tipico delle artiste donne del tempo, la sua prima formazione, vista l’impossibilità di seguire un regolare corso di studi esterno, avvenne presso la bottega paterna, mentre i pretesi studi con Giulio Romano, che morì poco prima che Diana venisse alla luce, sono suggestioni dovute al fatto che molti suoi rami derivano da soggetti del grande manierista, alla cui notorietà e diffusione contribuirono non poco.
Agli incisori – purtroppo spesso considerati artisti di serie B – va infatti il merito di avere divulgato presso una vasta platea i capolavori dei grandi maestri, destinati a case private o al massimo, nel caso di soggetti religiosi, ai fedeli di una città: un apporto fondamentale alla formazione del gusto e della cultura nell’Europa di quegli anni.
La fase mantovana
Nel 1566 giunse a Mantova Giorgio Vasari, uno dei maître à penser del tempo, che rimase molto colpito dalle indubbie qualità artistiche e personali della giovane. Le riservò quindi un breve ma laudativo paragrafo “una figliuola chiamata Diana, intaglia anch’ella tanto bene, che è cosa maravigliosa, et io che ho veduto lei, che è molto gentile e graziosa fanciulla, e l’opere sue che sono bellissime, ne sono restato stupefatto” nella seconda edizione della sua celeberrima opera Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori (1568).
Una simile attestazione significava entrare nel mondo dell’arte dalla porta principale e per la ragazza mantovana, che già frequentava la corte locale in forza della figura paterna, il miglior trampolino di lancio possibile.

Furono anni di lavoro massacrante, ma anche di ottimi successi: pur nella difficoltà di collocare cronologicamente le sue opere, siamo certi che almeno cinque tra le principali – di cui tre da Giulio Romano – risalgono a questo periodo.
In quegli anni conobbe il futuro marito, che lavorava tra Guastalla e Mantova, come architetto e intagliatore. Si trattò di un incontro fortunato tra due personalità compatibili sotto il profilo professionale e umano: ne nacque un sodalizio di rara efficacia, che giovò moltissimo alla carriera di entrambi. Non conosciamo con esattezza la data del matrimonio, ma dovette avvenire prima del 1575, quando Diana si trasferì a Roma (quale scandalo altrimenti!) dove già lavorava da qualche tempo il marito. Nel 1577 o 1578 (gli studi non sono concordi) nacque Giovanni Battista, probabilmente l’unico figlio della coppia, di certo il solo di cui ci siano giunte notizie.
Diana e la corte romana
I rapporti di Diana con la corte romana dovevano essere però da tempo intensi e fruttuosi se fin dal suo arrivo papa Gregorio XIII le concesse un privilegio più unico che raro: Diana avrebbe potuto firmare le proprie lastre – ne vengono menzionate 5, per lo più derivate da Giulio Romano – per indicarne la proprietà intellettuale e materiale, un riconoscimento del suo indiscusso talento e della qualità della sua opera.
Il documento prevedeva inoltre che potesse distribuirne le stampe per dieci anni in regime di esclusiva: vista la sempre maggior richiesta, in tutta Europa, delle stampe ottenute dai capolavori dei grandi maestri, questo fatto presentava un importante risvolto economico, che garantiva una fonte di reddito sistematica e sicura per almeno un decennio.

Il mondo della stampa era, infatti, ancora poco disciplinato sotto questo profilo, come dimostra la celebre controversia che aveva opposto, alcuni decenni prima, due colossi dell’incisione quali Dürer e Raimondi.
La concessione di questo privilegio è tanto più interessante in quanto riguarda un’artista donna, ma Diana era davvero un abile promoter del proprio lavoro e di quello del marito, dotata di fortissima autostima e di una rara capacità di catturare l’attenzione e la benevolenza dei potenziali committenti.
Si pensi ai cartigli di alcune stampe, di lunghezza e tono inusuali, che hanno il sapore di veri e propri “annunci pubblicitari”: ad esempio quando le venne concessa la cittadinanza di Volterra, lei, con mossa scaltra ed efficace, si firmò subito Diana Mantuana Civis Volterrana, di certo per ringraziare i concittadini del marito, ma anche per informare indirettamente i suoi estimatori che ogni beneficio ricevuto avrebbe avuto una giusta contropartita di notorietà.
Accademia virtuosa
Non erano ancora trascorsi cinque anni dal suo arrivo a Roma che Diana fu ammessa, unitamente alla principessa Livia D’Aragona, a Maddalena Bonifazi, moglie di un orefice, e a Maddalena Ambrogini, consorte di un matematico, all’Accademia dei Virtuosi al Pantheon, la più importante del tempo, che raccoglieva pittori, scultori e architetti, con fini essenzialmente “assistenziali” nei confronti degli associati. Si trattava dei primi ingressi femminili in assoluto e di certo Diana fu favorita dal fatto che il Reggente era allora Federico Zuccari, con cui aveva buoni rapporti di lavoro, e Secondo Aggiunto il marito.
Il ruolo di queste quattro pioniere fu forse principalmente legato alle attività “benefiche” dell’Accademia, ma Diana, al di là dell’implicito riconoscimento del suo ingegno, seppe usare con la consueta accortezza anche questa opportunità per tessere quella ragnatela di rapporti e conoscenze, fondamentale per ottenere incarichi prestigiosi per sé stessa e il marito.

1588: un’improvvisa interruzione (?)
Seguirono anni di lavoro intenso e grandi successi, bruscamente interrotti, secondo la versione più accreditata, nel 1588, quando l’artista, poco più che quarantenne, avrebbe realizzato gli ultimi due bulini.
Alcuni studiosi attribuiscono questo fatto a una grave forma artritica dovuta all’usurante attività professionale, altri alla solida fama ormai raggiunta dal marito che le avrebbe consentito di rinunciare alla sua faticosa attività. Ipotesi quest’ultima piuttosto difficile da accettare: in tutte le sue famose “dediche” Diana dà la netta sensazione di avere una precisa percezione del proprio valore e del proprio genio, facendo apparire strano questo improvviso desiderio di trasformarsi in un angelo del focolare.
Altri studiosi rimarcano invece l’opportunità di rivedere, alla luce dei documenti emersi dalle ricerche più recenti, la cronologia corrente delle sue opere, quasi tutte orgogliosamente firmate, ma spesso invece curiosamente non datate.
La morte del marito e gli ultimi anni
Francesco morì nel 1594 e per due anni Diana continuò ad abitare nella casa coniugale in via della Scrofa insieme al figlio, all’anziana madre e alla sorella Ippolita.
Morta quest’ultima nel 1595, l’anno seguente sposò in seconde nozze l’architetto Giulio Pelosi (1566-1644, cittadino romano dal 1608), più giovane di lei di venti anni, e si trasferì in via del Corso.
Questo tipo di matrimonio, con forte disparità cronologica tra moglie e marito, non era del tutto inusuale al tempo, anche se presupponeva che la donna fosse ricca o “di potere”: in assenza di documenti certi possiamo solo ipotizzare che la ricchezza di Diana fossero le preziose lastre di rame incise dalla sua abile mano. Una conferma indiretta ci viene dal rilevante utilizzo che delle stesse venne fatto subito dopo la sua morte, che fa pensare ad una cessione dell’intero blocco subito dopo il suo decesso.
Morì a circa sessantacinque anni nel 1612 e fu tumulata nella chiesa di S. Lorenzo in Lucina.
La produzione artistica
Il suo catalogo, in forte evoluzione grazie al recente interesse per la sua figura, comprende poco più di 60 opere certe e una quindicina dubbie.

Diana incise soggetti religiosi, spesso a destinazione devozionale, temi mitologici, dettagli di decorazioni architettoniche e allegorie, derivati dalla produzione pittorica a lei coeva, cui si aggiungono riprese della statuaria classica.
Tra le altre spicca un curioso Lunario, inciso in collaborazione con il marito nel 1584 e ripetuto per alcuni anni, che conobbe un ottimo successo di pubblico sino a che l’occhiuta attenzione del governo pontificio verso tutto ciò che sapeva di “magico” non spinse l’accorta Diana a evitare inutili complicazioni.
Le sue opere si distinguono per l’eleganza del disegno, la qualità del segno e delle ombreggiature, ma soprattutto per l’armonia complessiva della composizione, che ne evidenzia le doti artistiche.
Sebbene non si conoscano opere di sua “invenzione”, le lastre di Diana non sono, infatti, mai banali “traduzioni” degli originali: l’artista operò sempre una “personalizzazione” dei soggetti, in primo luogo rivisitandoli abilmente per adeguarli alle peculiarità del bulino e in secondo luogo inserendo degli elementi dettati dalla sua personalità, per lo più ambientazioni naturali ricche di squisiti particolari.
Maria Giovanna Trenti ©
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