Molte delle donne trattate nel progetto Donne A…, per poter inseguire i loro sogni e vivere la vita che volevano, hanno dovuto comportarsi da “eroine”, operare scelte eccezionali, rischiare l’ostracismo di un’opinione pubblica ostile quando non addirittura la vita, spezzare legami, convenzioni e abitudini: in sostanza dimostrare di essere più intelligenti, forti e coraggiose dei loro familiari, amici o conoscenti maschi, sconfiggendoli su un piano di valori “maschile”, che quindi, inconsciamente, finivano con l’avvallare.

Non a caso i commentatori, quasi tutti uomini, riconoscevano che queste donne agivano con animo “più che virile”: per quanto abbiano combattuto (in senso reale o metaforico) per dimostrare il loro personale valore, sono state apprezzate proprio per la loro eccezionalità, secondo il comodo principio che ogni eccezione conferma la regola.

Nel III secolo d.c. a Roma una matrona della gens Fabia, Fabiola appunto, fonda uno xenodochion, struttura che offriva un tetto ai pellegrini, ma anche ai malati. A dirigerlo la stessa Fabiola che soprintendeva anche alle prestazioni mediche. Divenne nota nel secolo scorso grazie a un romanzo ispirato alla sua vita e al ritratto “in rosso” di Jean-Jacques Henner.

In buona sostanza i loro successi venivano (e in parte ancora vengono) letti come conferma che la “regola”, ossia le altre, le donne, quelle “normali”, dotate di intelligenza e qualità personali “medie” (come la maggior parte della popolazione mondiale di entrambi i sessi), erano caratterizzate da intrinseca “debolezza femminile”, quindi da minor propensione agli studi complessi, ai lavori faticosi e complicati, alle professioni difficili e così via.

Le eccezioni che confermano la regola

A ben cercare però, accuratamente nascoste tra le righe delle cronache storiche e giornalistiche o note solo attraverso il passaparola di parenti e amici, non sono mancate donne, che, saldamente convinte dei propri obiettivi “normali”, hanno contribuito a cambiare le cose in modo sottile, quotidiano, con un’erosione lenta e sistematica dall’interno di un modello sociale che avvertivano come superato e ingiusto.

Poco dopo l’anno 1000, in una Salerno cosmopolita e all’avanguardia, emergono le
mulieres salernitanae, studiose legate alla celeberrima Scuola medica. Di queste la più famosa fu Trotula, figura ai confini tra storia e leggenda, cui è attribuita la nascita dell’ostetricia e della ginecologia come scienze mediche.

A loro cercheremo di dedicare il maggior numero possibile di questi ritratti, pur nella difficoltà di reperire informazioni affidabili e sufficienti a tracciarne la biografia.

Da un ritrovamento, avvenuto del tutto casualmente nel corso di altre ricerche, del nome di due donne medico pediatra nella Bologna del primo 1900, è nata la curiosità di approfondire la loro figura, quale simbolo delle numerose pioniere, che in quegli anni affrontarono questo complesso ciclo di studi, tradizionale roccaforte maschile.

In nomen omen: se ti chiami Maria delle Donne di cosa ti potrai occupare nella vita?
Laureata in medicina a ventun anni, abilitata ad insegnarla appena sei mesi dopo, riscosse per tutta la vita la stima dei bolognesi. A lei si deve il successo della scuola per ostetriche di approccio qualificato e scientifico, contribuendo a ridurre la tragedia della morte per parto.

L’attività di “cura” è femminile, ma può diventare una leva per cambiare il mondo

All’inizio la pediatria fu, insieme alla ginecologia, una delle specializzazioni mediche ad essere percorsa con più frequenza dalle laureate in medicina: con una costante, che abbiamo incontrato spesso, le donne si “infiltrarono” in una branca ove la presenza femminile era più o meno tollerata, il che, riducendo la conflittualità, le lasciava libere di lavorare in relativa pace sul campo, ove avevano modo di dimostrare le loro indiscutibili competenze. L’establishment, infatti, vedeva la pediatria come una prosecuzione di quell’attività di “cura” che da sempre le donne svolgevano verso i figli e che si ricollegava in qualche misura a quel diploma universitario di ostetrica, frequentato da sole donne, che, nell’ateneo di Bologna, dalla sua formalizzazione postunitaria al 1915, aveva licenziato oltre mille professioniste.

Durante la prima guerra mondiale furono arruolate numerose dottoresse e farmaciste: di fronte al bisogno disperato cadevano le barriere di genere (!). Tra le altre Clelia Lollini (1890 – 1964) fu destinata come chirurgo all’ospedale militare di Venezia, dove eseguì un numero drammaticamente alto di interventi.

Anche da questa piccola crepa in un sistema blindato, i medici donna sono partite per una battaglia a tutto campo, che ha portato nel 2020 al sorpasso numerico delle professioniste donne sui colleghi maschi.

Se ne parla sul giornale

Il Resto del Carlino del 22 settembre 1913 dedicava pressoché interamente la pagina 5 all’ottavo Congresso di Pediatria, che si teneva in quei giorni presso le antiche sale dell’Archiginnasio.

Il Resto del Carlino, 22 settembre 1913

Il paragrafo intervenuti, in un profluvio di luminari super titolati e di illustri ospiti, riportava uno sbrigativo cenno alle dottoresse Cantalamessa e Fini, uniche figure femminili presenti insieme alla signora Laura Pezzetti-Puglioli (probabilmente moglie del prof. Puglioli dell’ateneo bolognese) e alla fiorentina dottoressa Lina Pieragnoli.

All’estensore dell’articolo va quantomeno da atto di avere attribuito ai due medici il titolo universitario dovuto, visto che non mancano, ancora nel 2020, capiufficio un po’ retro – ormai più buffi che offensivi – i quali si rivolgono ai maschi con il titolo di studio e alle donne con il generico signora.

In copertina: Interno di ospedale durante “la visita” all’inizio del 1900.

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