DONNE d’Arme – Donella Rossi, la più giovane delle “guerriere Torelli” nacque da Antonia e Pier Maria de’ Rossi probabilmente nel 1439, ultima di una numerosa schiera di fratelli (forse sette, forse otto).
In qualche misura la sua nascita coincise con l’ultimo periodo di normalità della vita familiare, in quanto di lì a poco il padre si innamorò di una nobile lombarda, Bianca Pellegrini di Arluno, e con lei costruì una seconda famiglia, alloggiata in due nuovi stupendi castelli, Roccabianca e Torrechiara, situati a non grande distanza dalle residenze storiche di famiglia, Felino e San Secondo.

La madre Antonia gestì la vicenda, di cui spettegolava tutto il bel mondo del tempo, con dignità e fierezza, concentrandosi sul ruolo di tutela del prestigio familiare e patrimoniale dei Rossi, ma per i figli la situazione fu assai più delicata anche perché toccava aspetti economici e politici di non secondaria rilevanza.
Se, infatti nessuno all’epoca si scandalizzava per qualche relazione fuori dal matrimonio, con corollario di bastardi (il nome proprio Bastardo era sufficientemente diffuso e senza particolare valore spregiativo), a volte preferiti persino ai figli legittimi (si pensi a Leonello e Borso d’Este), una famiglia parallela ostentata coram populi con tanto di celebrazione pittorica nella delizia di Torrechiara, doveva creare qualche imbarazzo.
Donella sposa Giberto Sanvitale
I figli maschi ebbero sempre con il padre un rapporto conflittuale, che portò addirittura all’espulsione di due di loro dall’asse ereditario, ma anche il legame con Donella doveva essere parecchio deteriorato, come avremo modo di vedere.
Nel 1454, nell’ambito di alcuni contratti matrimoniali, che avrebbero dovuto sedare rivalità ormai incancrenite, fu data in sposa al conte Giberto Sanvitale, appartenente a una delle famiglie parmensi storicamente ostili ai Rossi.
Educata in una famiglia dove le donne – la mamma Antonia e più ancora la nonna Orsina – avevano gestito spesso il potere anche politico, Donella affiancò il marito in tutte le attività di natura amministrativa dei feudi ed anche probabilmente in quelle diplomatiche.

In questa logica va inquadrata una lettera, inviata nel 1472 da Ludovico il Moro direttamente a Donella anziché al marito “Magnifica Signora, carissima nostra, questo nostro illustrissimo Signore (Gian Galeazzo Sforza allora Duca di Milano) è stato contento di assegnare in mano di vostro Consorte la fortezza di Noceto, acciò conosciate che delle fatiche e sinistri vostri sopportati in beneficio di questo illustrissimo Stato suo tiene buon conto. E quantunque li meriti vostri siano assai maggiori, non essendosi per ora potuto fare più, accettate questo di buono animo, tenendo per certo che abbiate nello avvenire a conseguire di meglio per la buona e ottima disposizione del prefato Signore e nostra verso voi, vostro consorte e figliuoli. Di Milano a’ 29 novembre del 1472”.
Il documento risulta di assai difficile interpretazione, in quanto Noceto era in potere della famiglia Rossi fin dal 1448 e tale restò sino al 1481: probabile che si tratti di un’assegnazione in linea di principio, senza nessun riscontro concreto, il cui unico valore era testimoniare la riconoscenza del potente di turno nei confronti di chi lo aveva aiutato o aveva sostenuto disagi in sua difesa, fenomeno di cui abbiamo all’epoca parecchi riscontri.
I figli e le relazioni con Milano
In questa prima fase del matrimonio, Donella pare che riuscisse a mantenersi in un sufficiente delicato equilibrio tra la famiglia di origine e quella acquisita: nel 1473, ad esempio, contribuì con assegnazione di propri beni personali alla dotazione del convento benedettino, che il padre aveva voluto a Torrechiara. Di certo in questa difficile operazione fu aiutata dalla nascita di tre figli, tra cui il sempre all’epoca agognato erede maschio: Niccolò Maria Quirico, Bernardino e Barbara Maria.
Ma in pochi anni, ancora una volta a seguito di ciò che accadeva nel Ducato di Milano, la situazione precipitò, mettendo la donna davanti a una drammatica scelta personale, che la vide opporsi non solo al padre, ma anche ai familiari della madre.
Sul finire del 1476 una congiura di nobili, cui pare non fosse estraneo il re di Francia, uccise Galeazzo Maria Sforza, primogenito di Francesco, il cui erede, il figlio Gian Galeazzo di appena sette anni, governò sotto l’egida della madre Bona di Savoia e di un Consiglio di reggenza, in cui dominava la figura di un abile politico, il notaio Cicco Simonetta.
Le controversie con nuovi e storici nemici dei Rossi
Questi cambiamenti ebbero pesanti ricadute sullo storico legame di Pier Maria con i Visconti e gli Sforza, che andò via via indebolendosi, consentendo agli storici nemici Pallavicino e Sanvitale, cui si erano aggiunti i signori di Correggio, di compiere impunemente azioni di guerriglia e di saccheggio contro i possedimenti dei Rossi.
Il non più giovanissimo Pier Maria tentò di reagire, ma i suoi punti di riferimento erano venuti meno ed emergeva con durezza il limite politico dei Rossi di non avere legami feudali diretti né con il Papa né con l’Imperatore.

Ad onore del marito di Donella va ricordato, in questi delicati frangenti, un tentativo di pacificazione tra i contendenti, esperito per il tramite di tre stimati notai di Parma, cui, nel giugno del 1479, Giberto Sanvitale diede l’incarico di stendere un trattato che prevedesse una tregua dalle azioni militari e la sostanziale restituzione dei beni passati di mano in questa fase tumultuosa.
Con un grave errore prospettico circa l’evoluzione del governo milanese e le proprie reali potenzialità, Pier Maria respinse l’offerta, forse convinto che Milano, troppo impegnata a curare i propri guai interni, si sarebbe per un po’ disinteressata di Parma, consentendogli di battere una volta per tutte gli odiati rivali.
Le dispute della famiglia con Ludovico il Moro
Di certo aveva sottovalutato gli stretti legami tra i Pallavicino e Ludovico il Moro; i primi ebbero, infatti, buon gioco a riaprire vecchie controversie patrimoniali riguardanti in particolare la zona di Roccabianca, uno degli splendidi edifici che Pier Maria aveva costruito per l’amata Bianca d’Arluno.
Ludovico, che probabilmente dubitava del Rossi, vicinissimo al padre e in ottimi rapporti con il fratello Gian Galeazzo, prestò agevolmente orecchio ai suggerimenti dei Pallavicino ed ordinò più volte a Pier Maria di recarsi a Milano, ottenendone sempre un rifiuto.
La situazione degenerò nell’inverno del 1482, quando il Moro, sicuramente sobillato dai Pallavicino, ma anche irritato per l’atteggiamento ingrato del parmense, che egli vedeva come grande beneficiato degli Sforza, lo attaccò militarmente.
Pier Maria ancora una volta diede prova di scarsa lungimiranza politica e militare, fidando oltre il lecito in una sorta di “aderenza” alle sue ragioni ottenuta dalla Repubblica di Venezia, impegnata nella cosiddetta “guerra di Ferrara”, contro il Duca d’Este, sostenuto dal Papa, da Genova e dal Re di Napoli.
Anziché cercare un accomodamento, si dispose a combattere, insieme ai figli, che nell’occasione ritrovarono l’unità familiare, sottovalutando di essere stato dichiarato ribelle e bandito dalla città di Parma, dove molti suoi sostenitori venivano perseguitati.
Iniziò quindi un feroce contrattacco, non risparmiando neppure i castelli del genero ed all’inizio la sorte parve arridergli: conquistò infatti, grazie al tradimento del Capitano, la rocca di Oriano, sentinella sul Taro e una delle più forti dei Sanvitale, che venne arsa e spianata.
Donella sulle mura di Sala Baganza
Da qui le truppe del Rossi si diressero contro Sala Baganza, il cui possente castello, di recente ampliato e rinforzato con strutture atte a sostenere le nuove tecniche belliche, tra cui un ampio fossato perimetrale, era stato affidato da Giberto Sanvitale alla moglie Donella, di cui evidentemente si fidava sia come alleata sia come combattente.
Ci piace di seguito riportare la vicenda, come viene narrata da un’antica fonte, che probabilmente la romanza un bel po’, ma al tempo stesso ci fornisce l’esatta dimensione di quanto le gesta di Donella avessero affascinato i contemporanei: “Custodiva il Castello di Sala, in assenza del marito Giberto, Donella eroina d’animo imperterrito, avendo seco due figliuoli ancor fanciulli, e una non molto numerosa guarnigione. Benché nata di Pier Maria, ella temeva, dal padre ostilità non meno che da qualsifosse più fiero nemico, si fattamente il furore delle civili discordie avventavasi infin contro alle proprie viscere. Fattosi pertanto ad oppugnar quel Castello Amuratte Torelli, molto a Donella attenente, ei conduceva la guerra in modo non men crudele che ostinato. Tenendosi in pugno la vittoria per sé e pe’ suoi soldati, si diede ad empier le fosse di sermenti, di virgulti, di vimini e d’ogni materia, finché il suolo reso affatto piano désse ai fanti libero il corso sotto le mura. Aperta al Castello la via, pose alle mura le scale, rammentando ai capitani ed ai soldati il valor loro e invitandoli al bottino, ché sapeva avere i villani colà raccolte tutte le loro sostanze. Rassicurava i pronti, rampognava i tardi, e difeso da un albero non lungi dal Castello adempiva gli uffici di comandante. Ché non osava di troppo avvicinarsi per timore delle artiglierie, né di mostrarsi con tutta la persona: solamente col chiamare or questo or quello ordinava quanto volea che si eseguisse.

Tale oppugnazione sostenevasi da Donella con fortezza superiore ad animo di femmina, dando ella a divedere coraggio grande in quell’arduo cimento. Assisteva armata ai difensori; e con virile costanza esortandoli, ammonendoli, amichevolmente chiamandoli, e scorrendo pei baloardi ne cresceva le forze e il fervore, e di promesse colmavali. ln così fare le venne di lunge veduto Amuratte, il qual davasi a conoscere pel pomposo paludamento che il distingueva agevolmente dal semplice soldato e da ogni altro, nel mentre ch’egli dall’albero con quanto potea di voce sgridava o lodava i suoi, e mettea fuora or le braccia, or le gambe, or le spalle, ora tutta la persona, atteggiandosi a seconda degli affetti che in lui si svegliavano allo scorgere in ciascuno o prodezza od ignavia. Ella, come chi è preso da sdegno: non fia no, disse, se non m’inganna speranza, che oggi sia venuto impunemente sotto le nostre mura costui, dimentico dell’attenenza che ha meco, e del dovere. E dato di piglio ad uno schioppo, che per caso le venne a mano, il colpì di palla in una coscia presso il femore mortalmente. Della quale ferita sendo egli tosto come moribondo a terra caduto, coloro che combattevano sulle scale alle mura, o che a queste si facean sotto, udite le grida de’ terrazzani nunzie di letizia per la caduta del Comandante, e veduto il tumulto e il correre de’ proprii comilitoni intorno a lui semispento, sciolser di tratto l’assedio, e volte le spalle si ritrassero non senza strage di molti ai compagni, che presto sbandati diedero addietro come ciascun poté meglio. Morto Amuratte entro tre giorni, ciò che della sua riputazione d’onest’uomo ei perdette per la macchia di rotta fede e di tradimento, tutto s’aggiunse a lode e a perenne fama di Donella. Imperocché ella non solo vendicò gli oltraggi, ma resegli anche un bel contraccambio per l’atterramento della Rocca di Oriano e pel violento attentato, in guisa da meritare dal Pubblico una statua insegna del valore; non altrimenti che quelle antiche Spartane, ad onor delle quali trovo che per aver salva la patria dal soprastante nemico, fu eretto nella Curia il simolacro di Venere armata”.
Veramente fantastica la contrapposizione tra Amuratte Torelli, stretto parente di Donella per parte di madre, che nel suo “pomposo paludamento” si agita come un burattino dietro la precaria protezione di un albero, facendo di sé stesso un bersaglio ideale, e la pratica intelligenza militare della sua avversaria, che intuito come solo l’eliminazione del capitano avversario possa salvare una situazione fortemente compromessa, si impossessa di uno “schioppo” e, con mira infallibile, lo ferisce mortalmente.

Anche per le donne Torelli la tecnica militare stava cambiando: se Orsina e Antonia erano ancora guerriere all’arma bianca, che guidavano le loro schiere all’attacco, Donella dovette fare i conti con il progressivo rapido successo delle armi da fuoco. E lei dimostrò di essere aggiornata e di sapere usare con competenza un’arma per specialisti, che richiedeva mano ferma, buona mira, notevoli conoscenze specifiche e anche una certa prestanza fisica: non ci si improvvisava “Schioppettiere”.
Il fallimento dell’attacco a Sala Baganza e la morte di uno dei suoi più validi Capitani fu forse il colpo finale per Pier Maria, la cui salute stava già declinando da qualche tempo: morì infatti nel settembre del 1482, ben conscio che lo “Stato dei Rossi”, da lui portato alla massima potenza, finiva anche con lui.
Donella dovette sopravvivergli di poco – non abbiamo più sue notizie sicure dal 1483 – di certo anche lei molto provata dalle drammatiche decisioni che si era trovata a dover assumere.
Maria Giovanna Trenti ©
Miria Burani ©