DONNE d’Arme – In Francia imperversava la seconda guerra di religione tra cattolici e ugonotti, in Olanda veniva istituito il famigerato Consiglio dei Torbidi, la regina Maria Stuarda era stata imprigionata dai nobili scozzesi ribelli, in Italia continuavano le solite guerricciole fratricide, ma in quel novembre 1567 tutta Roma spettegolava su un unico ghiottissimo tema: l’annullamento del matrimonio contratto ben diciassette anni prima da Olimpia, detta Claudia, Rangoni e da Giberto di Correggio, da cui nel 1554, era nata anche una figlia.
Gli elementi piccanti c’erano tutti: Claudia era bella, colta, ricca, famosa e con un caratterino niente male, in più si vociferava di una sua eccessiva vicinanza a Girolamo da Correggio, stretto parente del marito (e già qui…), ma soprattutto Cardinale di Santa Romana Chiesa.
L’infanzia di Olimpia, detta Claudia
Olimpia nacque nel 1537, poco prima della morte del padre, Claudio Rangoni, Signore di Castelvetro e Levizzano, abile e astuto capitano di ventura, conteso dai principali potenti del tempo, nonostante una forma terribile di gotta che lo obbligava talvolta a farsi portare al campo su di una seggiola e che ne provocò la fine, a soli 29 anni, il 15 febbraio 1537. Questa vicinanza di date fece sì che il nome Olimpia, originariamente scelto per la bambina, venisse mutato in Claudia.

L’indirizzo formativo dei figli, Claudia e Fulvio, restò quindi nelle mani della madre, Lucrezia Pico, figlia di Lodovico della Mirandola, che nel 1537 era stata pubblicamente denunciata per il possesso dell’esecrabile Sommario della Sacra Scrittura. In contatto con numerosi esponenti del dissenso religioso che in quegli anni attraversava Modena e che portò al celebre processo al Cardinal Morone, scelse quali precettori per i suoi figli personaggi di spicco appartenenti a quest’area di eterodossia, dapprima don Girolamo Teggia, poi il celebre Carlo Sigonio e infine l’irrequieto poligrafo Sebastiano Fausto da Longiano.
Entrambi i ragazzi dovevano essere brillanti e abituati sin dall’adolescenza agli usi, agli obblighi e agli intrighi della vita di corte, se già nel 1549 il poeta Vincenzo Martelli indirizzò a Claudia, appena dodicenne, una di quelle epistole, piene di cortigianerie, così di moda al tempo, forse con l’obiettivo di ottenere, suo tramite, qualche favore da parte della potente famiglia modenese.
Il contratto matrimoniale
L’anno seguente venne addirittura concluso il suo contratto matrimoniale, nell’ambito di una intricata vicenda familiare: Guido Rangoni, celeberrimo Capitano di Ventura nonché uomo forte della famiglia, e Manfredo da Correggio, padre di Giberto, avevano concluso, nel 1538, un accordo nuziale tra i propri figli ancora bambini, come era usuale al tempo tra le famiglie nobili. Nell’attesa che i due raggiungessero l’età per contrarre effettivamente il matrimonio, Lavinia, figlia di Guido, venne invece fatta sposare, per motivi ignoti, a Sigismondo II Gonzaga, Marchese di Vescovato.

Giberto, ormai ventenne, il 14 maggio 1550 sposò quindi per procura un’altra Rangoni, la tredicenne Claudia, che portava la discreta dote di 15.000 scudi d’oro italiani e che rischiava di restare a breve orfana anche di madre in quanto Lucrezia soffriva da tempo di “infirmità causata da dolore de matrice”, che la portò a morte pochi mesi dopo.
Sui primi anni di matrimonio non ci sono pervenute testimonianze, anche perché forse la convivenza effettiva, come spesso accadeva in presenza di spose molto giovani, iniziò solo dopo qualche tempo: la prima notizia certa è la nascita nel 1554 di una figlia, chiamata Lucrezia in onore della nonna materna, della quale sappiamo solo che, probabilmente “travolta” dalla complessa vicenda familiare, finì monaca, nonostante la fiera opposizione della madre.
I rapporti tra i due coniugi dovettero ben presto peggiorare poiché non vi è traccia di altre gravidanze, cosa piuttosto insolita in un mondo dove la ricerca dell’erede, soprattutto maschio, assumeva toni spasmodici, spesso anche a rischio della vita della malcapitata di turno.
Interessi e distrazioni
Vanno forse inquadrate in questo contesto anche le frequenti assenze della Rangoni da Correggio, come provano gli indirizzi di alcune lettere: nel 1557 si trovava a Piacenza, nel 1558 a Parma, nel 1559 a Mantova, in procinto di partire per Loreto per un pellegrinaggio, nel 1564 a Castelvetro presso il fratello Fulvio, dove incontrò Torquato Tasso in fuga da Bologna.
D’altronde per una donna con forte personalità e idee chiare, Giberto non costituiva certo il partner ideale: si tratta, infatti, di una figura incolore, che compare nei testi, sia coevi sia successivi, essenzialmente come signore di Correggio, in condominio con i ben più noti e apprezzati prozii Ippolito e Girolamo, o come “marito di Claudia”, la bella moglie che egli definì di fatto indomabile, ma che semplicemente lo sopravanzava per fascino e intelligenza, cosa che i mariti di ogni tempo difficilmente sopportano.
Inevitabile quindi che nella piccola Correggio, che iniziava a declinare dopo i fasti legati alla presenza della poetessa Veronica Gambara, morta proprio nel 1550, la Rangoni trovasse interlocutori a lei più congeniali nei figli della stessa Veronica ed in particolare in Girolamo, avviato per volontà materna alla carriera ecclesiastica, colto, raffinato, diplomatico di grande abilità, capace di ambascerie delicate presso le grandi corti europee, ma soprattutto in contatto con il mondo dell’arte e delle lettere.
Coinvolgimenti letterari
In questo periodo la bella Claudia era vezzeggiata e corteggiata da numerosi intellettuali di spicco, che le riconoscevano oltre all’indiscutibile fascino, anche una spiccata intelligenza ed un elevato livello culturale: a soli vent’anni si trovò addirittura coinvolta nella celebre disputa tra Lodovico Castelvetro e Annibal Caro, l’affaire letterario della seconda metà del Cinquecento, con quest’ultimo che non solo la pregava di leggere l’Apologia, ma di “indicargli, ove essa le sembri aver bisogno di correzione, stimando tanto quanto io debbo la rarità dell’ingegno e del giudicio suo.”

Anche il Tasso non lesinò complimenti, citando varie volte Claudia nelle sue opere e giungendo a sostenere nel Rinaldo che “l’altra, che par, che l’aria intorno irragge, Onde Amor se medesmo accende, e fere, Claudia Rangona fia, che non gli altrui, Ma faran chiara i propri scritti sui”. Quest’affermazione ha indotto taluno a ipotizzare che, oltre le lettere pervenuteci, la Rangoni si dedicasse anche ad altre forme letterarie, di cui nulla sarebbe rimasto. Va però ricordato che a quest’epoca le lettere costituivano un “genere” vero e proprio, scritte spesso non allo scopo pratico di trasmettere informazioni, ma con l’obiettivo di essere lette nei circoli di corte quando non addirittura pubblicate e che molte dame colte, in primis Claudia, eccellevano in quest’arte.
Amori e pettegolezzi
In questo periodo intrecciò anche uno di quegli amori “petrarcheschi”, che deliziavano gli intellettuali o sedicenti tali perché, oltre a fungere da comodo e accettato schermo di altri legami ben più concreti, potevano essere liberamente oggetto di ironia, pettegolezzo, liriche d’occasione senza che ne derivasse imbarazzo agli interessati. Il fortunato era Giulio Gallo, gentiluomo romano poco più che quarantenne, figura paradigmatica di uomo di corte, al servizio dapprima di Ottavio Farnese e quindi del Cardinale Girolamo. Le numerose lettere tra i due testimoniano con chiarezza questo legame “cortigiano” intessuto di luoghi comuni, in cui espressioni come amore, affetto, desiderio hanno una valenza specifica per quel tempo e quel mondo, tanto che Annibal Caro, amico di entrambi, ne tratta apertamente con tono scherzoso in una lettera indirizzata a Claudia, ma in realtà di pubblico dominio.
Dietro questa facciata brillante e mondana, la situazione familiare a Correggio stava però peggiorando di giorno in giorno: quanto fosse alta la tensione tra i coniugi lo prova un episodio del 1562, quando Giberto approvò una donazione di duemila scudi d’oro in favore della moglie, evidentemente con l’obiettivo di ingraziarsela o tacitarla, ma lei la rifiutò seccamente.
Infausti presagi e fuga a Mirandola
Da quel momento tutto iniziò a precipitare e si giunse all’anno 1566, funestato da una serie di eventi preoccupanti, che la Rangoni, da appassionata di astrologia, come tutto il bel mondo del tempo, ufficialmente lesse quali “presagi” negativi, ma che a livello personale interpretò prosaicamente come incidenti provocati da “qualche malintenzionato”. Un’inquietante caduta dalla carrozza, che seguiva una lunga inesplicabile malattia, la lasciavano alquanto perplessa e la indussero a prendere decisioni drastiche, che avrebbero potuto sostarle moltissimo.
Quali che fossero i suoi convincimenti e i suoi timori, a dicembre Claudia all’improvviso scappò a Mirandola per mettersi sotto la protezione di Lodovico Pico, suo parente per parte di madre, sposato con Fulvia da Correggio, nipote preferita del Cardinale Girolamo: al marito non fece volontariamente parola di questa scelta, affidando le proprie motivazioni a una lettera molto dura, in cui lo accusava di una condotta inaccettabile nei suoi confronti.
Giberto reagì in modo stranamente pacato e si rivolse al cognato Fulvio per trovare un accomodamento: Claudia sarebbe andata a vivere con il fratello a fronte di un “assegno di mantenimento” di seicento scudi d’oro annui. Ma la donna aveva ben altri progetti, tanto più che rimproverava Fulvio di non averla mai tutelata dalle ingiurie del marito: ottenne quindi dei terreni con una rendita annua sufficiente a consentirle di vivere in modo autonomo.
La storia d’amor e il Cardinal Girolamo
Dall’evoluzione della vicenda e dalla sostanziale condiscendenza alle richieste di Claudia, risulta evidente che Giberto aveva da farsi perdonare molte cose che non voleva si risapessero in giro. La cerchia delle persone di sua fiducia doveva però tamponare un simile pubblico tracollo d’immagine: iniziò quindi a circolare, o fu pesantemente rilanciata, una versione della storia, poi divenuta col tempo e il passaparola verità inoppugnabile, che coinvolgeva Girolamo, il quale in effetti persino secondo il prudentissimo abate Tiraboschi “avea per Claudia più attaccamento, che non sembrasse al grado suo convenire, e che poco dopo la partenza di essa le tenne dietro”.

A rafforzare la credibilità di questa relazione c’era anche il passato dell’uomo, allora cinquantacinquenne e noto bon vivant, che in questo campo non era certo un’asceta, avendo già un figlio, natogli nel 1540 dalla figlia del guardiano della rocca di Correggio. Per di più proprio nel periodo del matrimonio di Claudia era rimasto spesso a Correggio, un po’ per essere vicino ai Farnese, che risiedevano a Parma, un po’ per evitare l’inquisizione romana, troppo zelante per i suoi gusti, tanto più che non mancava tra le sue frequentazioni qualche nome un po’ eterodosso: ci volle un minuto perché qualche malalingua aggiungesse “per poter frequentare liberamente Claudia”.
Soggiorno romano
Da Mirandola, dove era rimasta al sicuro presso i Pico per far passare la bufera, Claudia si recò a Roma, opportunamente alloggiata nel Convento benedettino di Campo Marzio, per ottenere l’annullamento del proprio matrimonio e forse anche per vivere nel centro culturale allora più vivace d’Italia, dove voleva riallacciare tutti quei legami di amicizia che la recente spinosa vicenda aveva allentato e dove il suo legame con Girolamo poteva essere condotto in modo più discreto che nella piccola Correggio.
La Rangoni aveva preparato per il tribunale ecclesiastico un promemoria spietato in cui elencava i misfatti del coniuge, ma qualcuno, forse proprio Girolamo, molto saggiamente, le consigliò di non mettere in piazza cose tanto sgradevoli, che rischiavano di provocare una valanga incontrollabile, pericolosa per tutti: meglio aggrapparsi ai cavilli legali, che nei tribunali, si sa, vincono sempre. La causa fu quindi impostata su una presunta parentela di quarto grado emersa successivamente alle nozze, che rendeva il matrimonio nullo, non essendo stata richiesta specifica dispensa, ma salvaguardava la legittimità della figlia per “buona fede dei genitori”. Anche in questo caso il Tiraboschi non riesce a mascherare il suo disappunto per il palese inghippo e rileva che “per quante osservazioni si siano fatte sugli alberi delle illustri famiglie, che con essi aveano relazione, non si può indicare, in qual modo fossero essi in questo grado parenti”. Qualche “manina” doveva aver “aggiustato” i necessari documenti.
Ottenuta questa importante vittoria, Claudia visse ancora qualche tempo in convento, tanto per salvare le apparenze, per poi trasferirsi, come si evince da alcuni atti notarili, in un’abitazione propria, probabilmente nel rione Colonna presso l’Oratorio del Santissimo Crocifisso, dove seppe ricostruire velocemente quella rete di legami intellettuali e letterari, che rappresentavano il suo maggior interesse, e poté liberamente incontrarsi con Girolamo.
Occorre dire che Giberto doveva essere colpevole davvero di gravi torti verso la moglie, visto che l’intera vicenda non intaccò ufficialmente la reputazione di Claudia: Francesco Sansovino, nella sua opera sui casati illustri, pubblicata pochi anni dopo l’evento (1570), trattando della famiglia Rangoni, ne fa un ritratto oltremodo lusinghiero “Donna veramente mirabile, & dignissima d’ogni riverenza, & di honore, come è ben noto a ciascuno. Percioch’ella ripiena di Filosofia, & di Theologia non pur nella lingua, ma nel petto ancora acquistatasi universalmente lode d’intera pietà Christiana: & d’incomparabile cortesia, & disciplina nella religione, è maravigliosamente ornata di tutte quelle qualità che la fanno singolarmente ammirare non solamente da tutta Roma, ma da tutte le genti che hanno cognitione di tanta donna. La quale Pio Quinto Sommo Pontefice, & di santa memoria: havendo in molta veneratione non era cosa, che egli non facesse per gratificarla: come degnissima, & singolarissima fra tutte le donne regalmente qualificate ne tempi nostri”.

Nel tran tran quotidiano la situazione doveva invece essere parecchio diversa: la fierezza e l’indipendenza con cui Claudia gestiva la propria vita, ivi compresa l’ininterrotta frequentazione con il Cardinale Girolamo, era ovviamente oggetto di attacchi subdoli, condotti sottotraccia magari dietro un velo di apparente amicizia: non giovava certo a tacitare le malelingue il fatto che il Correggio, nominato Vescovo della ricca diocesi di Taranto, in deroga ai decreti tridentini non andasse a risiedere nella città pugliese, ma adducendo motivi di salute, peraltro reali, la affidasse al vicario generale.
Il Cardinale non diventa papa
Il punto di massima sgradevolezza fu raggiunto nel 1572, in occasione del conclave chiamato ad eleggere il successore di Pio V, che vedeva tra i papabili proprio il Cardinale di Correggio. La sua sconfitta in favore del bolognese Ugo Boncompagni, secondo i bene informati del tempo, sarebbe stata frutto del legame con Claudia “fu pubblicato per Roma , e nel Sacro Collegio de Cardinali, che fosse giunta in Roma la Contessa Claudia Rangona […]che la servisse con troppo cordiale affetto, e ne facesse grande stima, soggiungendo, che riuscendo Girolamo Papa, vi saria il Papa, e la Papessa, che per tal fama fu distornata la sua fortuna”.
In realtà Girolamo più che dalla vicinanza di Claudia fu zavorrato dall’essere l’uomo di fiducia dei Farnese, che scontavano l’ostilità del re di Spagna, il quale aveva un peso non piccolo sulle scelte del Conclave. D’altronde il pontificato di Girolamo sarebbe stato una meteora: una salute da tempo malandata lo condusse a morte nell’ottobre di quello stesso 1572.
Tutti questi pettegolezzi divennero verità storica per gli autori dei secoli successivi sino a Pompeo Litta che aggiunge come Claudia, furibonda di gelosia, avrebbe addirittura pagato “un sicario per togliere dal mondo una donna conosciuta dal Cardinale”, particolare piccante ovviamente ripreso da tutte le biografie più recenti, ma di cui non c’è traccia in quelle più antiche.
Biografie e testimonianze
La Rangoni sapeva di questo chiacchiericcio alle sue spalle, ma non se ne curava troppo, ritenendosi moralmente ed intellettualmente superiore ai suoi detrattori. Al di là delle testimonianze scritte rimasteci, lo dice chiaramente attraverso la scelta delle sue “imprese”, quelle rappresentazioni simboliche del proprio io attraverso un’immagine e una frase, fondamentali per capire la sensibilità del tempo.

La prima consiste in due linee di meta accompagnate dalla scritta latina “nec citra, nec ultra” (“né al di qua né al di là”), voluta per esaltare la propria fermezza e il proprio equilibrio, che da un lato le consentivano di non eccedere in falsa sicurezza, dall’altro di non essere alla mercé delle opinioni dei maligni.
La seconda raffigura una fiamma con il motto “deorsum nunquam” (“Non mai verso il basso”), simbolo di un’anima ardente che aspira al grande e al bello, a volersi elevare sopra la meschinità umana.
La morte del Cardinale, amante, amico o confidente che fosse, segnò duramente Claudia, nonostante molti ragguardevoli personaggi della corte romana continuassero con lei una fitta corrispondenza e nel 1576 le venisse addirittura conferita la cittadinanza romana, privilegio rarissimo per una donna, che per di più viveva sola senza essere vedova.
Memore forse degli antichi insegnamenti modenesi del Sigonio, si interessò sempre più di temi spirituali tanto che nel 1586 il minorita spagnolo Angelo del Pas le dedicò il Breve trattato del conoscere et amar Iddio, scritto su istanza della stessa Claudia che chiedeva una guida alla conoscenza e all’amore divino, come esplicitato nella prefazione.
Morì il 2 febbraio 1593, ancora bella e affascinante, lasciando eredi di pressoché tutti i suoi beni i Padri Barnabiti di Roma per l’edificazione della oggi scomparsa Chiesa di S. Paolo alla Colonna.
Maria Giovanna Trenti ©
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