DONNE d’Arme – In nomen omen dicevano gli antichi e mai proverbio fu più azzeccato se pensiamo alla celebre Marzia degli Ubaldini. Certamente quando il padre Giovanni (Vanni) e la moglie Andrea Pagani scelsero per la propria figlia il nome, a quel tempo non usuale, di Marzia, con palese riferimento al dio pagano della guerra, non potevano immaginare che nella culla stava dormendo una delle più celebri “donne d’arme” italiane.
Peraltro in casa Pagani e Ubaldini la guerra era “faccenda di famiglia”. La madre era, infatti, figlia ed erede del famoso Maghinardo Pagani di Susinana, che combatté, con serena ambivalenza, per i Guelfi in Toscana e per i Ghibellini in Romagna tanto da meritarsi le invettive di Dante, nonostante avessero militato dalla stessa parte a Campaldino. Nel canto XXVII dell’Inferno il poeta accusa Maghinardo di mutare “parte dalla state al verno” e nel canto XIV del Purgatorio auspica che la stirpe Pagani si estingua con il “demonio” Maghinardo, anche se mai potrà cessare la fama delle sue malvagie azioni. Probabilmente Dante sapeva che l’odiato Maghinardo (morto nel 1302) aveva solo eredi donne e quindi la “profezia” sulla fine dei Pagani è un tantino “facile”, ma il Sommo Poeta non aveva fatto i conti con la tempra delle donne di casa.

Andrea, erede del castello di famiglia e di numerosi altri nella valle del Senio, li portò in dote a Vanni degli Ubaldini di Montaccianico, che da quel momento si fece chiamare Vanni da Susinana: con buona pace di Dante non assunse il cognome Pagani, ma insomma. Come molti altri della famiglia, praticava il comando di truppe di ventura e lo troviamo attivo in numerosi episodi bellici fino al 1368, sovente al fianco del più noto fratello Gaspare
Marzia e il suo tempo
In questo ambiente di signorie rurali, arroccate in imprendibili manieri appenninici tra Romagna e Toscana, da cui partivano alla conquista, per lo più effimera, delle ricche città di pianura, all’inizio del 1300 nacque Marzia, detta familiarmente Cia.
La madre provvide ben presto a tutelare il futuro della figlia esattamente come suo padre aveva fatto con lei: era ancora bambina quando nel testamento le assegnò la non disprezzabile dote di 1500 fiorini d’oro e un lascito ereditario di altri 500. Stiamo parlando di molto denaro contante, soprattutto per una società dove predominavano le proprietà terriere e anche le famiglie facoltose erano speso in “crisi di liquidità”. In più il fiorino d’oro era la “moneta rifugio” dell’epoca, spendibile, diremmo oggi, su qualunque mercato.
Dell’infanzia e della giovinezza di Cia non sappiamo nulla di certo, mentre molto è stato romanzato, adattando alla bambina prima e alla fanciulla poi le notizie sulla donna adulta riportate dalle fonti antiche, principalmente la Cronica di Matteo Villani, fratello e continuatore del più celebre Giovanni, e l’anonima Vita di Cola di Rienzo Tribuno Romano.
Questi due testi hanno contribuito moltissimo alla costruzione del suo mito, attraverso una narrazione ricca di spunti aneddotici: viene raffigurata come un’eroina senza paura, non certo esente da decisioni crudeli in linea con il suo tempo, ma coerente sino in fondo con la propria scelta di campo e disposta, in pieno raziocinio, a subirne le inevitabili conseguenze.
La vulgata comunque la vuole “bellissima e aggressiva” fin da bambina: sul secondo aggettivo possiamo tranquillamente concordare in forza di quello che storicamente sappiamo di lei, sul primo diamo fiducia alla vox populi.
Cia e Cesena, destino legato a doppio filo
Nel 1334 contrasse un matrimonio politicamente importante: sposò, infatti, Francesco Ordelaffi, signore di Forlì, che in quegli anni stava espandendo il proprio dominio su numerose altre città e cittadine limitrofe e tra l’altro anche su Cesena, il luogo simbolo legato a doppio filo al destino di Cia.

Al matrimonio seguì un ventennio di “silenzio” o forse semplicemente di eventi non testimoniati, anche se è naturale pensare Cia dedita alla complessa vita di corte a Forlì, a fianco di un marito che di “mestiere” faceva il capitano di ventura, nutriva sogni di grandezza e si impicciava di faccende internazionali cercando di diventare (e c’è riuscito) il più celebre della sua famiglia, Francesco II il Grande, e il campione dei ghibellini italiani (c’è riuscito meno), in sprezzo alle gerarchie ecclesiastiche, con cui di fatto si pacificò (almeno in apparenza) solo negli ultimi anni di vita. Queste ultime a loro volta lo bollarono di “cane patarino”, un epiteto che all’epoca poteva costare carissimo, a lui e a tutti i suoi.
Ad esempio cercò di insinuarsi nella disputa che opponeva Luigi o Ludovico d’Ungheria alla cognata Giovanna I di Napoli, colpevole, secondo il sovrano magiaro, di avere ordito una congiura mortale contro suo fratello minore Andrea.
Durante la prima discesa in Italia del sovrano ungherese (1348) per punire Giovanna, l’Ordelaffi compì una serie di strane manovre, prima mettendosi a disposizione di Luigi e poi chiedendo di ritornare a Forlì, nel frattempo attaccata e saccheggiata da truppe al soldo della Chiesa. A motivo di tale rinuncia Francesco accampò la minorità dei figli, incapaci a suo dire, di prendersi cura delle cose di governo.
Viene da pensare che i motivi fossero ben altri poiché, se i figli erano piccoli, la moglie, come vedremo in seguito, era perfettamente in grado di occuparsi del governo cittadino e godeva della sua piena fiducia: forse la scarsa pecunia di cui era fornito Ludovico fu un ignobile ma concreto motivo per svicolare?
Di certo la corte forlivese sul finire del 1340 viveva un dispendioso momento di grande splendore con la presenza, tra l’altro, di importanti letterati locali come Cecco di Meletto, notaio e cancelliere di Francesco, e Nereo Morandi, entrambi in amicizia, scusate se è poco, con Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio. Quest’ultimo addirittura soggiornò presso l’Ordelaffi tra il 1347 e il 1348, cercando un incarico ben remunerato o almeno una raccomandazione: nel frattempo scrisse l’ecloga Faunus, che descrive in chiave allegorica i fatti di quegli anni, celando Francesco per l’appunto sotto il nome di Faunus. L’ecloga, genere classico, veniva proprio in quegli anni “rilanciata” e rimodernata, in un serrato confronto tra Petrarca e Boccaccio, con un ruolo di spicco per il forlivese Cecco.
Regina incontrastata di questo vivace ambiente dovette essere senz’altro Cia, splendida padrona di casa e, molto probabilmente, abile amministratrice della cosa pubblica, capace di costruire attorno al marito, spesso assente, la ragnatela del consenso. Anche i cronisti ostili debbono infatti riconoscere che Francesco era amato dal suo popolo, di sicuro per una certa naturale empatia con tutte le classi sociali e la magniloquenza di taluni gesti a difesa dei più deboli “maritava orfane, allocava polzelle, soveniva a povera iente de soa amistate”, ma di sicuro anche per l’accorta regia della moglie, che ne condivideva in toto il progetto di diventare qualcosa di più del “signore di Forlì”.

Finora Cia aveva agito astutamente nell’ombra e quella “fedeltà al marito” che tutti gli storici rimarcano è forse da leggere anche, se non di più, come fedeltà a convinzioni e progetti personali, non esclusa una sorta di ideale cavalleresco, cui non doveva essere estranea la discendenza materna dal demoniaco Maghinardo.
Chiesa vs Ordelaffi
Attorno alla metà del Trecento però l’evolversi delle vicende politiche chiese a Cia, ormai donna adulta e esperta del mondo, di entrare nell’agone in prima persona e ne consacrò definitivamente il mito.
Il quadro storico era quanto di più sfavorevole si potesse ipotizzare per la signoria Ordelaffi: l’irrequietezza di Francesco e soprattutto la sua ostilità alla Chiesa ne avevano fatto un nemico di primo piano nientemeno che del Cardinale Albornoz, un ruolo ben superiore all’effettiva potenza del signore forlivese.

Come noto all’Albornoz era stato affidato il compito di restaurare l’autorità della Chiesa nei territori romagnoli e marchigiani, in mano a una pletora di riottosi signori locali, perennemente in guerra tra loro.
Il Cardinale, politico sopraffino, alternando bastone e carota, si insinuò nelle crepe di questo quadro politico, isolando i singoli “tiranni” (come era d’uso chiamarli) e sfruttando la latente ostilità che dominava da sempre i loro rapporti.
In tale frangente Francesco si rivolse ad un’alleata preziosa e fidata, la moglie, affidandole il presidio di Cesena, la città più esposta in quanto di recente acquisto, situata ai confini del dominio e prossima a quella Rimini tenuta dai Malatesta, ormai legati a doppio filo al Cardinale.
Effettivamente Albornoz, nell’agosto 1354, inviò il Conte di Dovadola a mettere a ferro e fuoco il territorio cesenate, ma Cia, con un’abile sortita, uccise il Conte, recuperò il bottino e fece parecchi prigionieri, tra cui due Malatesta, preziosa merce di scambio. Il Villani, che di Marzia ha un’opinione altissima, commenta “non come femmina, ma come virtudioso cavaliere montò a cavallo coll’arme indosso gridando, e smovendo i cavalieri soldati che v’erano che la dovessono seguire contro a’ nemici ch’erano di fuori. I cavalieri inanimati, vedendo tanto ardire in una femmina, di presente la seguitarono, e abboccatisi co’ nemici per forza li sconfissono”.
Una crociata contro Forlì
Si trattò purtroppo di una goccia nel mare: ormai dei signori locali resistevano solo Francesco e Giovanni Manfredi a Faenza, praticamente abbandonati da tutti, in quanto anche i Visconti, tradizionale riferimento del partito ghibellino, erano stati “tacitati” con il dominio su Bologna.
Addirittura venne indetta una crociata, predicata in tutta Europa: dopo la caduta di Faenza (1356) di fatto l’intera Cristianità era coalizzata contro Forlì. I sogni di grandezza di Francesco, pure scomunicato, si stavano concretizzando, certo non nella direzione sperata. Capitano di questa crociata fu nominato quel Luigi d’Ungheria, che nel 1348 era stato accolto ed ospitato con tanta cortesia a Forlì.
Al di là dell’evidente sproporzione tra le forze in campo, che se non fosse tragica farebbe persino un po’ sorridere, la situazione era oltremodo pericolosa per i poveri sudditi di Francesco e per lo stesso sovrano, che ancora una volta affidò il punto debole dei suoi possedimenti alla moglie: Cia si portò quindi alla difesa di Cesena con duecento cavalieri, un contingente di fanti e l’ausilio di due “fidati” consiglieri del marito, Sgaraglino da Pietracuta e Giorgio Tiberti.
In una situazione tanto disperata, con l’assedio incombente, alcuni notabili cesenati, che avevano molto da perdere, incitarono i cittadini alla rivolta e alla consegna della città alla Chiesa.
Di fronte a questa ribellione, Cia si ritirò nella cosiddetta Murata, la munitissima rocca cittadina, insieme al figlio Sinibaldo, ad altri familiari, ai consiglieri e a un manipolo di soldati a lei fedeli. Con mossa cinica, ma ineccepibile secondo le logiche del tempo, imprigionò nella Murata anche alcuni capi della sommossa, che ordinò di decapitare, facendone poi gettare i corpi dall’alto delle mura.

Nonostante fosse di fatto “prigioniera” dei suoi stessi sudditi, Cia compiva sistematiche incursioni in città per devastarne i punti nevralgici e preparare al meglio la difesa, visto che Albornoz, occupato il colle di fronte, predisponeva un attacco in grande stile, con l’ausilio di ben otto grandi macchine da getto.
Durante questa difficile fase comandò di uccidere i due consiglieri che l’avevano accompagnata su incarico di Francesco, convinta che avessero segrete intese con il nemico e i cittadini di Cesena.
Per quanto eroica la difesa di Cia non poteva però durare più di tanto, anche per la defezione di una parte delle milizie: le truppe papali presero la parte esterna della cittadella obbligandola a rifugiarsi negli spazi angusti della rocca. A quel punto poteva contare su circa quattrocento uomini fidatissimi (ma le fonti peccano probabilmente in eccesso) che riuscirono ancora a infliggere danni al nemico, ma il 21 giugno, dopo circa due mesi di assedio, dovette arrendersi.
La prigionia e gli ultimi anni
Eroica sino alla fine, chiese un salvacondotto per gli uomini che l’avevano seguita nell’impresa, accettando invece per sé e gli altri familiari il destino, quale che fosse, che Albornoz intendeva riservare loro.
Fu condotta prigioniera ad Ancona, residenza del Cardinale, ma la sua tempra indomita le fece tenere un contegno “come se la vittoria fosse stata sua” tanto che l’Albornoz “meravigliandosi della costanza di questa donna, benché la ritenesse prigione a fine di piuttosto domare l’alterezza del capitano, assai la fece stare onestamente, e bene servire”. Fu liberata dopo circa due anni quando cadde anche Forlì e si ricongiunse al marito che nel frattempo era rientrato nelle grazie della Chiesa.
Morì, secondo la maggior parte delle fonti, nel 1381, ad un età decisamente alta per l’epoca, e le sue spoglie riposarono insieme a quelle del marito nella Chiesa di S. Francesco, per volontà del figlio Sinibaldo, che nel frattempo aveva recuperato Forlì e ottenuto il vicariato apostolico sulla città.
Le fonti antiche, affascinate dalla figura di Cia, ne romanzarono la vita con l’introduzione di episodi “esemplari”, probabilmente mai accaduti nella realtà, quantomeno in quella forma, ma utili ad illuminare una vicenda umana, di cui gli autori stessi avvertivano la portata straordinaria.
L’anonimo della Vita di Cola ad esempio introduce una finta corrispondenza tra Cia e il marito, in cui alle raccomandazioni di quest’ultimo di aver cura di Cesena, la donna risponde piccata “signore mio, piacciavi di avere buona cura di Forlì, che io averò buona cura di Cesena”, rimarcando la propria capacità di governare la città con saggezza, grazie alle doti personali di politico e di soldato. Analogamente, a fronte della pressante richiesta di Francesco di uccidere quattro cesenati sospettati di tramare con il partito guelfo, vuole verificare di persona la situazione ed ottenere prove inconfutabili, pienamente conscia del suo ruolo di reggente. In questo caso sbaglia, poiché i quattro sono veramente in intesa con il nemico, ma la correttezza e la linearità dell’operato di Cia è fuori discussione.

Molto interessante infine il presunto colloquio, introdotto dal Villani, tra la figlia assediata e il padre, che tenta di convincerla ad arrendersi.
Vanni degli Ubaldini si porta sotto le mura di Cesena preoccupato per la sorte di Cia, sperando di farla desistere da una resistenza che appare ormai non solo inutile, ma insensata: gli argomenti che usa (o meglio che Villani gli fa usare) non toccano però le corde del sentimento, quanto gli aspetti tecnici della situazione.
Non tanto un colloquio da padre a figlia, ma tra comandanti esperti nell’arte militare in cui Vanni, dopo aver riassunto la situazione disperata in cui versa la rocca, conclude “mostrando, ch’al più valente capitano del mondo non sarebbe vergogna [arrendersi] trovandosi in così fatto caso”.
L’affetto tra i due, che non viene negato, è però subordinato al rispetto dei reciproci ruoli pubblici: da un lato il vecchio mercenario che parla di tattica militare ad una figlia che ben lo capisce, in quanto forse istruita proprio da lui, dall’altro Cia, che, come ogni luogotenente fidato, non può derogare dagli ordini ricevuti che sono di non abbandonare Cesena “per niuna cagione”.
La donna, ben conscia della situazione disperata in cui si trova, con lucida razionalità ribadisce che deve seguire le indicazioni ricevute da Francesco, che in quel momento non è il congiunto, ma colui che le ha conferito un incarico, che la dignità personale le impone di rispettare a costo della vita.
Maria Giovanna Trenti ©
Miria Burani ©
