DONNE d’Arte – La sintesi migliore della personalità di Lavinia è il fatto che nacque e morì…Lavinia Fontana, nonostante avesse sposato Giovan Paolo Zappi e con lui avesse convissuto per quasi quarant’anni. Ad onor del vero talvolta si firmò Fontana Zappi: eppure persino Giovanni Baglione, pittore, ma soprattutto primo biografo degli artisti vissuti a cavallo del 1500 e del 1600 nella Roma papale, intitola il capitolo a lei dedicato con il nome da nubile.
Probabilmente una svista inconscia in un autore decisamente poco “femminista”, nella cui opera le artiste donne menzionate si contano sulle dita di una mano e solamente due, tra cui appunto Lavinia, hanno l’onore di una trattazione autonoma. Persino l’oggi notissima Artemisia Gentileschi è occultata in un paragrafetto scipito all’interno del capitolo dedicato al padre Orazio.
Testimonianza non voluta, ma per questo tanto più pregnante, che Lavinia “contava” nel bel mondo romano e che avere, in casa o in cappella, una sua opera era uno status symbol per i ricchi e i potenti del tempo.
La pittrice bolognese conobbe infatti, per quasi tutta la vita, un incredibile successo, grazie ad un mondo, quello rinascimentale, che pur con inevitabili limiti, sapeva riconoscere il talento femminile, anche quando esulava dalle virtù domestiche.

Lasciando agli esperti, magari un po’ meno parziali del Baglione, il giudizio sulla qualità della produzione artistica, ciò che colpisce in Lavinia è la “normale eccezionalità” della sua parabola umana, la volontà d’acciaio con cui seppe coniugare un approccio tradizionale e conforme alla morale corrente sul piano personale con una precisa coscienza del proprio ruolo professionale.
La Fontana nacque a Bologna nel 1552 da Prospero, valente pittore in contatto con tutti i maestri a lui coevi, che lavorò in molte delle più importanti “fabbriche” del tempo e divenne poi l’artista di fiducia del cardinal Paleotti, colui che, con il Discorso intorno alle immagini sacre e profane, dettò i principi ispiratori dell’arte tridentina. Non a caso una sua opera, Elemosina di S. Alessio, ancor oggi in situ a Bologna nella Chiesa di S. Giacomo Maggiore, è da molti considerata l’archetipo della pittura controriformistica in chiave bolognese, un ambiente culturale più aperto al dialogo che alla coercizione.
Prospero doveva essere tutto sommato uomo di buona apertura mentale, se, riconosciute le doti artistiche della figlia e impossibilito a farle frequentare le scuole di pittura, ancora precluse alle donne, ne curò – in ciò simile a parecchi padri “artisti” – fin da giovanissima la formazione, ma soprattutto, contrariamente a molti di loro, ne difese costantemente il diritto all’autonomia e all’autodeterminazione, contribuendo senza dubbio alla sicurezza che sempre Lavinia ebbe del proprio ruolo e delle proprie qualità.
Accanto alla formazione “in casa” per la giovane pittrice gli anni bolognesi furono, infatti, fondamentali per una sorta di “apprendistato indiretto”, favorito dal padre, sulle opere dei grandi manieristi, che ornavano allora le più auguste case patrizie e le chiese della città.
La prima opera di cui abbiamo notizia certa è una pala di soggetto religioso, il Cristo con i simboli della Passione, firmato e datato 1576, ma ben presto la Fontana si impose grazie alla ritrattistica, che restò sempre la sua specialità.
Ad amarla e a richiederla erano soprattutto le dame dell’alta aristocrazia che prediligevano la sua capacità di rendere al meglio il prestigio sociale, il ruolo pubblico, l’autorità connessa alla nascita ed alla famiglia di appartenenza più che le passioni del soggetto, tanto che qualche critico trova i suoi ritratti aridi, volti solo ad “assecondare l’inclinazione verso un gusto della rappresentazione ritrattistica mirabilmente espunta di segrete pulsioni o tensioni problematiche e invece pregna di attributi esteriori annoverati “araldicamente”. Ma tant’è: le belle dame facevano a gara nel ricorrere al pennello di Lavinia al punto che, secondo le parole di un cronista “gareggiarono le donne a trattenerla, carezzarla e servire per avere dalle sue mani i ritratti loro”.
A venticinque anni, già nota e apprezzata, la Fontana, sempre attenta a dare del proprio “privato” un’immagine “perbene” in contrasto con i tanti malevoli luoghi comuni che si sprecavano sulla poca moralità delle donne “lavoratrici”, decise infine di sposarsi e la scelta cadde sull’imolese Giovan Paolo Zappi, ricco e quasi gentiluomo, con una forte passione per la pittura, cui facevano ahimè, riscontro doti modeste.

Un matrimonio sui generis rispetto all’uso del tempo visto quanto riporta, non senza celare il proprio sarcasmo, Cesare Malvasia nella sua Felsina pittrice: “Potè più volte accasarsi con persone nobili e con ricchi signori, ma rifiutò sempre di farlo, solita dire, volere un suo pari, essendo l’uguaglianza ne’ matrimonii madre della concordia e della pace: e se bene a Prospero suo padre riuscì di darla a Gio. Paolo figlio unico di Severo Zappi da Imola, molto ricco e quasi gentiluomo […] Facilitò altresì l’esito di tal negoziazione la estrema delettazione, che mostrava aver il giovane della pittura, battendo perciò anch’egli per proprio diletto la stanza di Prospero insiem con gli altri scolari e qualche poco disegnando, se non così bene, da par suo e da persona comoda; arrischiandosi ancora, se ben poi inutilmente, a porsi allo trepiedi e al colorire. Parve inoltre alla sagace giovane potersi francamente assicurare della dabbenaggine, anzi semplicità del futuro sposo; il perché, divenutale poscia consorte, con condizione non solo di permetterle, che proseguire potess’ella il dipingere. ma lei ancora aiutar dovesse, e in ciò affaticarsi, nulla riuscendo, solea burlarlo; e ponendolo a fare almeno il busto a que’ ritratti, ch’ella ricavava e a vestirli solamente, soggiungere, che in tal guisa si contentasse fare almeno il sartore, già che il cielo non lo volea pittore.”
Anche in tema di mariti mostrava idee molto chiare: non voleva uno sposo ricco o potente che avrebbe immediatamente intralciato se non impedito la sua professione, ma un bravo ragazzo, del suo status sociale, che sapesse stare al proprio posto.
In ciò fu probabilmente assecondata dal padre, che, avendo un’esatta percezione del valore artistico della figlia, le consentì un matrimonio che rispettasse appieno le sue aspirazioni: il contratto, siglato dai due capifamiglia, dallo sposo e da tre testimoni, precisa senza ombra di dubbio che lo Zappi non doveva intromettersi nella professione della moglie.
Vien quasi da dire che anzi desse una mano, per la miseria, che nello studio c’era tanto da fare, che le commesse si cumulavano.
Questo messaggio, trasparente nel contratto nuziale, è abilmente veicolato dalla stessa Lavinia nell’Autoritratto alla spinetta (1577), dono, secondo l’uso del tempo, alla famiglia del futuro marito, che la ritrae all’interno di una stanza, elegantemente abbigliata, mentre suona per l’appunto la spinetta, come ogni brava ragazza di buona famiglia. Sullo sfondo però si erge il cavalletto, emblema della sua professione, che lei “ovviamente” intendeva proseguire.

Questa forza e questa sicurezza non le impedirono una vita matrimoniale del tutto normale, secondo i canoni del tempo: visse sempre accanto al marito, senza che nessun pettegolezzo venisse a turbare la famiglia, mise al mondo undici figli e conobbe il profondo dolore di perderne ben otto.
Con lo Zappi peraltro aveva creato un sodalizio professionale che funzionò benissimo: il marito, ben conscio delle sue modeste capacità artistiche, si addossò l’onere di “fare il sartore”, rifinendo i quadri nelle parti, come gli abiti, non di “sostanza”, e di essere l’agente della celebre moglie, attività per cui mostrò di essere portato, tessendo abilmente rapporti con le principali famiglie nobili e ricche del tempo e procurandole vantaggiosi contratti.
Anche perché la vita di Lavinia doveva essere decisamente intensa tra un ritratto ed una gravidanza, una pala d’altare ed un incontro con qualche prestigioso committente: tra questi ultimi va annoverata la famiglia Boncompagni ed in particolare papa Gregorio tredicesimo, che la avrebbe voluta addirittura a Roma, perché la pittura della bolognese incarnava nel modo migliore l’iconografia concepita dal Concilio di Trento e si prestava benissimo agli scopi propagandistici ad essa connessi. Non a caso la Fontana ritrasse Gregorio, in quello che è il suo ritratto “ufficiale”, ma anche il figlio Giacomo, Duca di Sora e Marchese di Vignola, e la moglie Costanza Sforza di Santa Fiora.
Per molto tempo la pittrice resistette alle pressioni dei suoi mecenati, ma infine lasciò Bologna per Roma tra il 1603 ed il 1604, anche per le insistenze del marito, che vedeva la possibilità di aumentare le commesse e il prestigio della moglie nella città che era allora al centro della cultura.
A Roma ebbe ancora una volta grande successo, tanto da essere chiamata la “Pontificia Pittrice”, grazie alla protezione, oltre che dei conterranei Boncompagni, anche dei Borghese e dei Barberini, ma soprattutto all’abilità con cui sapeva interpretare i desideri e le passioni della società aristocratica romana del tempo.

A questo periodo risale il curioso episodio, riferito da vari cronisti, dell’ambasciatore di Persia in visita a Paolo V, che, dopo averle commissionato alcune opere, si sarebbe perdutamente innamorato della pittrice. Verità o leggenda poco importa: serve a testimoniare che Lavinia, ormai più che cinquantenne, conservava intatto il proprio fascino, senza dubbio figlio soprattutto della sua forte personalità. D’altra parte fu una donna molto corteggiata ed adulata, in onore della quale scrisse versi persino il cavalier Marino, il letterato senza dubbio più famoso e conteso della Roma di quei decenni.
Gli ultimi anni furono segnati anche da qualche amarezza, come le critiche di scarsa armonia compositiva rivolte alla grande pala raffigurante il Martirio di Santo Stefano, destinata a San Paolo fuori le Mura, oggi perduta. Era peraltro inevitabile che la pittrice, che aveva così ben incarnato lo spirito del suo tempo, restasse in qualche modo vittima del mutare del gusto.
Quando morì, nel 1614, dopo una vita piuttosto lunga per l’epoca e certo vissuta pienamente, era però ancora tanto celebre ed ammirata da far dire ad un cronista che “…tutti n’ ebbono dispiacere, per esser donna virtuosa e da bene.”.
Quello che colpisce ancor oggi della pittrice bolognese è una sicurezza serena del proprio ruolo e della propria abilità: non combatte il mondo intorno a lei, anzi ne accetta le regole in ogni ambito, semplicemente le ignora per quanto attiene la sua professione. Sa di essere abile e capace, pertanto non prova nessun sentimento di inferiorità verso i pittori maschi: partecipa con loro e insieme a loro alla corsa per il successo, conscia che talvolta si perde talvolta si vince.
Forse i contemporanei di lei percepirono proprio questa sicurezza, tanto che, come ricorda sempre il Malvasia “premiandonela in modo, che maggior prezzo a’ giorni nostri non siasi usato con un Vandych, con un Monsù Giusto”, il che per un tipo pratico come Lavinia era davvero sinonimo di successo.
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